La notizia è clamorosa: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’introduzione dossalmente, la mossa aggressiva di Trump viene vista da alcuni come un catalizzatore: “un’occasione da non perdere” per accelerare l’emancipazione da Hollywood e costruire finalmente un mercato audiovisivo europeo più forte e autonomo.
Conseguenze e scenari: industria, cultura e società tra breve e lungo periodo
Quali sarebbero le conseguenze di una guerra dei dazi culturali tra le due sponde dell’Atlantico? Proviamo a tracciare uno scenario, distinguendo gli impatti a livello industriale, culturale e socio-politico, nel breve e nel lungo periodo.
Impatti industriali: rischio di scosse ma chance per il cinema europeo
Nel breve termine, l’imposizione reciproca di dazi sui contenuti audiovisivi sarebbe uno shock per l’industria cinematografica e televisiva su entrambe le sponde. Sul versante europeo, le major di Hollywood potrebbero ridurre l’offerta verso i nostri mercati di fronte a tassazioni più elevate: meno film USA distribuiti nelle sale o sulle piattaforme, oppure prezzi più alti per acquisirne i diritti (costi che poi ricadrebbero in parte sugli spettatori). I grandi distributori e le catene di sale cinematografiche europee potrebbero inizialmente registrare un calo di titoli di richiamo e dunque di incassi, dato che storicamente i blockbuster americani dominano il botteghino. Basti pensare che nel 2023 i film statunitensi hanno raggiunto oltre il 70% delle presenze nelle sale europee, un record storico, mentre i film europei rappresentavano solo il 26% dei biglietti venduti. Una contrazione dell’offerta “made in USA” rischierebbe dunque, nell’immediato, di ridurre il pubblico in sala se non compensata.
Tuttavia, proprio qui potrebbe aprirsi la grande opportunità per l’industria europea. Con meno concorrenza schiacciante dei kolossal hollywoodiani, i distributori e gli esercenti avrebbero necessità di riempire le programmazioni con prodotti alternativi, dando più spazio a film europei o di altre provenienze. I produttori del continente, dal canto loro, si troverebbero di fronte a un mercato interno più affamato di contenuti locali, e con eventuali fondi aggiuntivi a disposizione (se i ricavi dei dazi fossero reinvestiti a sostegno della filiera). Nel medio-lungo periodo, dunque, una tariffazione differenziata anti-Hollywood potrebbe favorire la rinascita delle produzioni nazionali ed europee, capaci di intercettare quel pubblico rimasto orfano di alcuni blockbuster americani.
Già oggi esistono segnali incoraggianti: nel 2024, ad esempio, diversi paesi europei hanno visto aumentare la quota di mercato dei film domestici grazie a produzioni popolari locali – in Francia i film nazionali hanno toccato il 44% di share, in Finlandia addirittura il 31%, il livello più alto dal 2017. Segno che con le giuste condizioni il pubblico risponde. Un contesto protetto da un dazio culturale e alimentato da nuovi finanziamenti potrebbe replicare e ampliare questi successi su scala continentale. L’Europa produce già moltissimi film (nel 2023 in Europa allargata si sono prodotti oltre 2.347 titoli, più che negli USA), ma soffre di frammentazione e budget medi più bassi rispetto ai colossi americani. Una politica coordinata che unisca protezionismo mirato e incentivi potrebbe portare a film europei con maggiori risorse e ambizioni, in grado non solo di piacere in patria ma anche di competere sui mercati internazionali. In altre parole, l’handicap industriale che oggi separa un tipico film europeo (budget medio ~1-2 milioni) da un blockbuster USA (anche 100+ milioni) potrebbe ridursi se si crea un circolo virtuoso di investimenti e pubblico più orientato al prodotto locale.
Certo, non mancano i rischi. Un errore di calibrazione del dazio potrebbe scatenare reazioni a catena: se gli USA dovessero reagire colpendo altre industrie europee (automotive, lusso, agroalimentare), le tensioni commerciali più ampie finirebbero per danneggiare l’economia nel suo complesso, con meno risorse poi da destinare anche alla cultura. Inoltre, Hollywood potrebbe optare per aggirare le misure protezionistiche europee puntando su distribuzioni alternative (ad esempio, potenziando l’uscita diretta su piattaforme proprie) o facendo leva sul fanbase: in caso di contenuti molto attesi, i consumatori europei potrebbero comunque pagarne il prezzo maggiorato o cercare vie illegali (pirateria) per accedervi. In sintesi, a breve termine l’industria europea avrebbe scossoni da gestire, ma a lungo termine potrebbe uscire rafforzata e più indipendente, a patto di sfruttare i dazi come volano per una strategia industriale e non come fine a sé stessi.
Diversificazione culturale e soft power: verso un nuovo immaginario globale
Le implicazioni culturali di uno scenario del genere sarebbero profonde. Da oltre un secolo Hollywood esercita un soft power potentissimo sul pubblico mondiale, plasmando l’immaginario collettivo attraverso film e serie che esportano valori, simboli e modelli narrativi americani. L’Europa in particolare è stata terreno fertile per questa influenza: l’onnipresenza dei prodotti culturali USA ha spesso relegato in secondo piano le produzioni locali, con effetti di vera e propria “colonizzazione culturale” secondo molti studiosi. Si pensi che per intere generazioni di europei i riferimenti pop sono stati i supereroi Marvel, le sitcom di New York, il ballo del liceo nei teen-movie: elementi di un immaginario made in USA che hanno permeato il modo di sognare, parlare e perfino aspirare delle persone, a volte più dei racconti della propria tradizione. Questa asimmetria culturale è ben documentata: al di fuori degli Stati Uniti, il pubblico conosce spesso più registi e attori americani che connazionali, e raramente avviene il contrario. Hollywood è riuscita a “imporre” valori e storie senza apparire come propaganda, proprio grazie al fascino dello spettacolo – la quintessenza del soft power.
Ridurre la penetrazione dei contenuti hollywoodiani in Europa, tramite un dazio culturale o misure analoghe, potrebbe quindi portare a una maggiore diversificazione dell’immaginario collettivo. Nel breve periodo, ciò significherebbe esporre il pubblico europeo a più film ambientati nelle proprie realtà, con personaggi dalle culture vicine, storie tratte dalla storia e dalla letteratura locale, lingue europee parlate sullo schermo. La varietà dell’offerta culturale potrebbe ampliarsi: più cinema francese, italiano, tedesco, nordico, dell’Est Europa, ma anche più produzioni dall’Asia, dall’Africa o dall’America Latina, che spesso faticano a trovare spazio dominati dai blockbuster USA. Si tratterebbe di una sorta di riequilibrio culturale: l’Europa, anziché ricevere passivamente l’immaginario altrui, alimenterebbe di più il proprio e lo condividerebbe con il resto del mondo. Nel lungo periodo, questo potrebbe contribuire a una riduzione del soft power statunitense e a un rafforzamento del peso culturale europeo nel mondo. Se oggi termini come “American way of life” o “sogno americano” sono familiari ovunque grazie a film e serie, domani potremmo assistere a una maggiore circolazione di concetti e storie legate al “modo di vivere europeo”, alle diversità interne al continente, alle sue vicende storiche e sociali.
Inoltre, un panorama audiovisivo meno omogeneizzato dai colossi di Hollywood potrebbe stimolare la creatività narrativa. Registi e autori europei avrebbero più margine per sperimentare linguaggi originali, senza la pressione di doversi adeguare ai canoni commerciali globali fissati dagli studios americani. Già negli ultimi anni, segnali come il trionfo di Parasite (film sudcoreano) agli Oscar o il successo internazionale di serie non anglofone (La casa di carta dalla Spagna, Dark dalla Germania, Squid Game dalla Corea) indicano che il pubblico è pronto ad accogliere storie fuori dal paradigma hollywoodiano, se queste riescono a emergere. Con un contesto favorevole, potremmo vedere una nuova ondata di cinema europeo mainstream, capace di intrattenere e al contempo raccontare il continente con occhi propri. Questo arricchirebbe il mosaico culturale globale, con benefici anche in termini di dialogo interculturale: film e serie sono veicoli di comprensione tra i popoli, e un mondo multipolare anche sul piano dell’immaginario potrebbe favorire una visione meno americanocentrica delle questioni globali.
Va sottolineato che la diversificazione non significa isolamento: l’idea non è chiudere le frontiere ai film americani, ma riequilibrare un flusso che oggi è a senso unico. In futuro si spera semmai in uno scambio più paritario, dove Hollywood resta un attore importante ma non egemone. La crescita dell’audiovisivo europeo potrebbe anche innescare una sana competizione creativa con gli USA, spingendo entrambi a migliorare la qualità e l’originalità delle proprie produzioni. Una sorta di “guerra fredda culturale” non ideologica ma commerciale, che nella migliore delle ipotesi porterebbe il pubblico globale ad avere più scelta e contenuti migliori da ogni angolo del mondo.
Effetti sociali e identitari: l’Europa di fronte al proprio specchio
Sul piano sociale e politico, le conseguenze di un “dazio culturale” e della conseguente ricalibrazione dell’offerta mediatica sarebbero complesse. In Europa, un minor bombardamento di cultura pop americana potrebbe incidere sulla percezione collettiva e sull’identità delle nuove generazioni. Da anni si dibatte sul fenomeno dell’americanizzazione: molti europei, soprattutto giovani, condividono riferimenti e modelli di consumo culturale simili a quelli dei coetanei di Los Angeles o New York, spesso a scapito della conoscenza della propria cultura nazionale o continentale. Se improvvisamente i blockbuster Marvel o le serie di punta di HBO/Netflix fossero meno accessibili o più costose, potrebbe emergere una maggiore curiosità verso ciò che è “nostrano”.
Nel breve termine, ci sarebbe probabilmente anche qualche malumore: una parte di pubblico vedrebbe il provvedimento come un atto punitivo che li priva di prodotti di intrattenimento amati. I social media potrebbero amplificare l’idea (sostenuta dai fan più accaniti) che il governo “censuri” o renda più difficile vedere l’ultimo film Marvel o la serie hollywoodiana del momento. Il dibattito pubblico potrebbe polarizzarsi tra chi sostiene la linea della sovranità culturale e chi invece difende la libera scelta del consumatore. È cruciale, dunque, che eventuali misure vengano spiegate non come un divieto di fruire cultura americana, ma come strumenti per valorizzare la cultura europea senza per questo rinunciare del tutto a quella d’oltreoceano. Un buon paragone è quello delle politiche alimentari: promuovere i prodotti locali a “chilometro zero” non significa bandire quelli esteri, ma riequilibrare dieta e mercato. Come nota ironicamente un commentatore, l’ossessione di Trump per i film “100% made in America” ricorda quella per il latte o l’olio interamente nazionali, portata però all’estremo. L’Europa potrebbe adottare un approccio più sfumato: favorire il proprio senza demonizzare l’altrui.
Nel lungo periodo, se la strategia avesse successo, potremmo assistere a una crescita della consapevolezza culturale europea tra i cittadini. Vedere più spesso sullo schermo storie ambientate in città europee, con protagonisti che parlano italiano, francese, polacco o svedese, affrontando tematiche vicine alla realtà europea, potrebbe rafforzare il senso di appartenenza a una cultura condivisa. Paradossalmente, un dazio inizialmente motivato come reazione nazionale/economica potrebbe contribuire alla costruzione di un’identità europea più coesa sul piano narrativo e simbolico. Oggi uno spettatore portoghese e uno finlandese probabilmente hanno in comune più serie USA che programmi del rispettivo vicino europeo; domani, chissà, potrebbero entrambi appassionarsi a una miniserie belga o a un film italiano distribuito ampiamente grazie anche a queste politiche. In altre parole, l’immaginario europeo potrebbe diventare più circolare dentro il continente, favorendo la comprensione reciproca tra popoli UE e un sentimento di condivisione culturale.
Dal punto di vista politico, l’affermazione di una maggiore autonomia culturale europea avrebbe anche riflessi geopolitici. La riduzione del soft power americano in Europa significherebbe anche meno leva indiretta degli USA sull’opinione pubblica europea. Hollywood ha spesso contribuito a rendere popolari valori e visioni del mondo filostatunitensi; un riequilibrio potrebbe rendere l’Europa meno recettiva a certe narrazioni provenienti da oltre Atlantico. Ciò non è necessariamente negativo o positivo di per sé, ma indica un cambiamento di equilibrio. L’UE, se riuscisse a diventare essa stessa esportatrice di prodotti culturali di successo, guadagnerebbe soft power verso l’esterno: pensiamo all’America Latina o all’Asia, dove oggi l’immagine dell’Europa è spesso mediata da film americani (ambientati in un’Europa stereotipata) o da pochi titoli d’essai europei per un pubblico di nicchia. Un’industria audiovisiva europea più forte potrebbe proiettare influenza nel mondo, coerentemente con l’idea di “autonomia strategica” che l’UE invoca in campo economico e tecnologico.
Naturalmente, la partita si gioca anche all’interno: l’Europa è un mosaico di culture nazionali e regionali, quindi bisognerà garantire spazio e voce a tutte, evitando che a beneficiare di un protezionismo culturale siano solo i grandi paesi (come Francia, Germania, Italia) a scapito dei piccoli. I meccanismi di solidarietà e co-produzione saranno essenziali perché il “dazio culturale” sia percepito come uno strumento di arricchimento comune e non l’ennesima misura calata dall’alto da Bruxelles. In tal senso, un ampio dialogo politico e con gli operatori del settore sarebbe necessario prima di implementare politiche così incisive.
Verso un nuovo equilibrio culturale transatlantico?
In conclusione, la provocatoria mossa di Donald Trump – tassare al 100% i film di Hollywood realizzati fuori dagli Stati Uniti – ha aperto un fronte inedito nel già teso panorama dei rapporti transatlantici. L’Europa si trova di fronte a una scelta: subire passivamente questa offensiva protezionista, cercando magari esenzioni per sé ma senza cambiare lo status quo, oppure trasformare la crisi in opportunità, rispondendo con una strategia propria. L’idea di un dazio culturale europeo sulle importazioni audiovisive americane rientra in questa seconda opzione e, per quanto audace, si inserisce in una traiettoria storica in cui l’UE ha spesso rivendicato il diritto di proteggere la propria cultura dall’omologazione. Come abbiamo visto, i dati sul mercato audiovisivo globale ed europeo suggeriscono che c’è spazio per riequilibrare la situazione: oggi Hollywood gode di una posizione dominante (oltre 70% del nostro mercato cinematografico e un’influenza capillare sul pubblico), ma l’Europa dispone di creatività, talenti e perfino di un’industria potenziale che con le giuste politiche potrebbe prosperare (nel 2025 si spenderanno 248 miliardi di dollari nel mondo per produrre contenuti – una torta gigantesca da cui l’Europa vuole la sua fetta maggiore).
Dal punto di vista giornalistico, la vicenda presenta elementi di cronaca – l’annuncio di Trump e le immediate reazioni – ma evolve rapidamente in un dibattito di visione: che futuro vogliamo per il cinema e la TV in Europa? Neutrale nei toni, l’analisi evidenzia rischi e opportunità: se a breve termine il duello dei dazi potrebbe far tremare i mercati e creare tensioni (come già successo per altri settori), a lungo termine potrebbe innescare correzioni di rotta significative nell’ecosistema culturale globale. Lungi dall’essere un semplice braccio di ferro commerciale, qui in gioco c’è la capacità dell’Europa di raccontare sé stessa e di offrire ai propri cittadini – e al mondo – un immaginario alternativo a quello made in USA. Come sintetizzato da un produttore europeo, ormai la consapevolezza è diffusa: occorre “comprare meno serie USA e di più europee”, cioè investire sul proprio racconto.
Resta da vedere se i leader politici avranno il coraggio e la lungimiranza di intraprendere questa strada. Le discussioni nei corridoi di Bruxelles sono in corso, e non si escludono misure clamorose. Di certo, la partita dei dazi culturali sarà da seguire attentamente nei prossimi mesi. Potrebbe segnare l’alba di un nuovo equilibrio culturale transatlantico, in cui Hollywood non sarà più l’unica protagonista, e in cui l’Europa cercherà di non perdere l’occasione di diventare finalmente regista del proprio destino narrativo....

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